“Immaginate: dopo la preghiera dell’ora
media, o la sera all’imbrunire, dopo il vespro, al suono della campanella i
monaci depongono cocolle e mantelli nell’atrio accanto al lavabo. In assoluto
silenzio, si dispongono in ordine dietro all’abate, per fare il loro ingresso
in refettorio per il pranzo o la cena. In piedi davanti al tavolo pregano
insieme; quindi ognuno si siede al proprio posto e dispiegano il tovagliolo.
Regna il silenzio. Con un tocco del campanello, l’abate dà il segnale: un
monaco inizia a servire le pietanze accuratamente preparate in cucina;
l’incaricato della settimana legge ad alta voce un brano della Bibbia e altri
testi edificanti, mentre tutti iniziano a mangiare”. Lo scrive Giustino Farnedi,
abate dell’Ordine di San Benedetto (che la Chiesa celebra l’11 luglio) sull’Osservatore
Romano spiegando che questa cerimonia di accesso al refettorio e al pasto si
ripete da secoli nelle abbazie benedettine, secondo le norme stabilite da san
Benedetto nella sua Regula. Composta dopo il 529 per la nascente
comunità monastica di Montecassino, la Regola contiene le norme che governano
tutti gli aspetti della vita spirituale e materiale del monaco e dell’intera
comunità.
I capitoli centrali della Regola, dal 38 al
41, sono consacrati all’alimentazione dei monaci e alle norme alimentari che
devono essere seguite dall’intera comunità: la lettura in refettorio e il
silenzio a tavola, la misura del cibo e della bevanda, gli orari dei pasti, i
giorni di digiuno e astinenza.
Fra i motti che si possono trovare nei
refettori dei benedettini c’è spesso Ne quid nimis, cioè «Niente più del
necessario». La giusta misura è uno dei principi ai quali deve infatti ispirarsi
il monaco. Nella Regola la discrezione è indicata con il termine di mensura.
San Benedetto non tralascia di prescrivere
anche le norme pratiche dell’organizzazione del pasto, fornendo indicazioni sui
tipi di cibo che si addicono al monaco e, soprattutto, sulla quantità delle
pietanze e delle bevande. Raccomanda, a esempio, di mangiare una volta al
giorno in inverno e due volte in estate, quando il calore e i lavori faticosi
della campagna richiedono maggior impegno fisico; prescrive di limitare l’uso
della carne, riservata soprattutto ai malati; concede di mangiare fino a una
libbra di pane al giorno — circa 700 grammi — distribuendolo tra il pranzo e la
cena. “La dieta del monaco era completata dai pulmentaria cocta, una
sorta di minestra rustica di grano, orzo, farro o pane accompagnati da carne,
pesce, formaggio o legumi: un piatto completo con carboidrati, proteine e fibre”,
riferisce l’abate Farnedi. Per la bevanda, san Benedetto esorta il monaco a un
uso moderato del vino: l’indicazione è una emina, cioè circa un quarto
di litro.
Alcuni dei prodotti che sono il simbolo della
nostra tradizione gastronomica sono stati originariamente elaborati nelle
cucine monastiche. Ad esempio, l’antenato del parmigiano reggiano è menzionato
per la prima volta in un documento del 1159 dell’abbazia di Santa Maria di
Marola, in provincia di Reggio Emilia. Nel Vercellese, i cistercensi di Santa
Maria di Lucedio contribuirono alla diffusione della coltivazione del riso. La
produzione di birra e di formaggi costituisce ancora oggi una delle principali
attività artigianali di numerose abbazie in Belgio, nella Francia settentrionale
e in Germania, come a Maredsous, Orval, Westmalle e Andechs. La lavorazione del
miele è una delle attività artigianali dei monaci di Finalpia, di Praglia e
degli olivetani di Seregno.
L’abate cita alcune delle curiosità contenute
nel libro “Monaci a tavola”, di Nadia Togni (Tau editrice). Le benedettine di
Santa Maria di Rosano preparano speciali dolcetti, le marmellate con i frutti
dell’orto e la deliziosa cotognata. A Santa Maria del Monte a Cesena, i monaci
ricordano la commemorazione dei defunti, quando la sera della vigilia, il 1°
novembre, si preparavano le “anime purganti”, cioè le caldarroste irrorate di grappa
flambé.
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