Una caraffa di caffè fumante e il cesto con i piccoli di
pezzi di pane arabo, la pita, consacrati e avanzati dalla Comunione, ci
aspettano all'uscita dalla messa alla chiesa del Patriarcato greco-cattolico a
Gerusalemme. Non c’è nessuno che fa il segno della croce frettoloso e saluta:
la messa domenicale, qui a due passi dalla Porta di Jaffa, è l’occasione per
stare un po‘ insieme per la piccola comunità melkita, un po’ più di tremila
battezzati ma poche decine alle funzioni, i cattolici che più ricordano gli
ortodossi nelle loro liturgie, canti, icone e chiese.
“Siete di Roma? – chiede – Ogni tanto vado nella vostra
città, quando mi invitano a qualche riunione, ma non spesso. Non sono così
importante”, dice con un misto di umiltà e autoironia. E’ simpatico e utilizza
questa virtù anche quando predica. Parla per esempio del fatto che la gente non
si inginocchia più davanti al Santissimo. “Ma
padre, alla mia età – dice imitando la voce di una vecchietta – ho l’artrosi, proprio non ce la faccio a mettermi in ginocchio.
Ipocrìta, se vedi dei soldi a terra come ti sbrighi e ti inginocchi per
raccoglierli. Ipocrìta”, ripete sbagliando a mettere l’accento sulla parola pronunciata in italiano e strappando una risata. Scherza volentieri anche sui suoi acciacchi
legati all'età. Lo incontriamo sulla Via Dolorosa, di ritorno dal Getsemani,
che cammina appoggiandosi al suo bastone. “Sono già stanco morto e ora mi aspetta
anche la Via Crucis sotto questo sole. Lei – dice indicando la molto più
giovane sorella che è venuta a trovarlo dal lontano Canada – vuole farla a
tutti i costi…”. E si diverte a raccontare anche dell’ultima Messa di Pasqua:
tutta la notte con i Neocatecumenali, alla Domus Mamre sul Monte degli Ulivi
(dalla quale, per inciso, c’è la vista più bella sulla città), e poi, senza
dormire neanche un minuto, direttamente nella sua chiesa del Patriarcato per
celebrare la messa pontificale. “Ero distrutto e alla fine della messa pure una
fila di gente che voleva farmi gli auguri… mi sono stampato un sorriso sulla
bocca e tenevo gli occhi aperti” dice ridendo e facendo il segno di chi tiene aperte
le palpebre con l’aiuto delle dita delle mani.
Salutiamo il vescovo, il patriarca che ha un appellativo
che già mette la pace nel cuore: “Sua Beatitudine”. Monsignor Joseph Jules
Zerey ha smesso i paramenti rossi per la sua tonaca nera, lunga fino ai piedi, e
un po’ consumata dal lungo peregrinare per le vie polverose della Città vecchia
di Gerusalemme.
Ci guarda, si dà un colpo col palmo della mano sulla fronte e
in italiano dice: “Ma sì, eravate anche voi a messa e io non ho detto neanche
una parola in italiano. Scusate, scusate, non ci ho pensato”. Il vescovo
Giuliano, come si fa chiamare dagli italiani, Patriarca della chiesa
greco-cattolica di Gerusalemme, emerito
per l’età ma di fatto ancora nell'esercizio delle sue funzioni, ha celebrato la
messa in un mix tra arabo, inglese e francese. Ma conosce anche, oltre
l’italiano, il greco, lingua imparata nell'infanzia dalla sua mamma. “Avete
preso il caffè?” chiede premuroso sempre nel suo ottimo italiano. Un Patriarca
che si sente un pastore davvero.
Delle sue non molte pecore, i melkiti
che vivono a Gerusalemme e dintorni, ma anche dei pellegrini che frequentano il
suo Foyer, che ha le stanze e il ristorante proprio sopra la chiesa. Seduto
spesso all'ingresso, di fronte alla reception, saluta di cuore chi arriva, chi
va via, chi semplicemente passa; scambia sempre due parole, parla della sua
Gerusalemme e poi invita, con delicatezza e solo chi lo desidera,alla messa del
mattino. In fondo basta scendere dalle stanze con l’ascensore al piano terra
per trovarsi nella chiesa che è un tripudio di colori, di icone, di storie di
santi.

“Don Giuliano – diciamo un po’ irriverenti ma sapendo che
ad un pastore così semplice è un espressione che può fare piacere – la
aspettiamo a Roma. La porteremo in giro per la città e le offriremo noi un buon
caffè, un caffè vero. Dalle nostre parti, è un po’ più buono di questo di
Gerusalemme…”. “Grazie, ma non mi aspettate. Sono ormai troppo anziano e non mi
piace più viaggiare”, risponde con un sorriso e salutandoci calorosamente.
E
come dargli torto? Le due stanze in cui vive sulla terrazza della casa per
pellegrini dei melkiti affacciano sui tetti di Gerusalemme: a sinistra le
cupole nere del Santo Sepolcro, poi quella dorata della moschea che è un po’
l’emblema della città; ancora più a destra il Monte degli Ulivi. Si vede,
piccola, la chiesa a forma di lacrima, il Dominus Flevit, dove Gesù pianse. Una
vista che commuove oggi anche noi e dalla quale è davvero difficile separarsi.
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