IL VINO E IL MURO

I vigneti dei Salesiani nella Valle del Cremisan
I vigneti sono lì da oltre un secolo, c’era allora l’impero ottomano. Risale al 1885 la Casa Salesiana nel Cremisan, costruita sulle rovine di un monastero bizantino. Una valle fertile vicino al villaggio di Beit Jala, quasi attaccato a Betlemme e ad una decina di chilometri da Gerusalemme. E allora i seguaci di don Bosco in Palestina cominciarono a coltivare vigneti. Il vino all'inizio serviva solo per celebrare messa, oggi è invece nei negozi e sulle tavole di mezza Palestina  e di quella fetta di amatori nel mondo  che ha conosciuto la bevanda e la importa. Un gesto anche di solidarietà perché chi acquista il vino di Cremisan aiuta i Salesiani nelle loro opere di istruzione e carità.
Il muro a Betlemme
 La situazione non è mai stata completamente tranquilla, eppure quei vigneti continuano da oltre centrotrenta anni a produrre uva e vino. Anche se da qualche tempo incombe un muro, nel senso letterale della parola, quello che coni suoi otto metri d’altezza già divide Betlemme da Israele. Un serpente di cemento armato che ha sfigurato le valli e reso la città in cui Gesù è nato una prigione  cielo aperto. Ma ha anche drasticamente abbassato – fa notare il governo israeliano – il numero degli attacchi terroristici, che di fatto prima del muro erano all'ordine del giorno.
Sfidiamo il muro e andiamo a Betlemme. D'altronde con un passaporto straniero e il visto turistico rilasciato dalla polizia in aeroporto non è quella che si chiama una impresa eroica.
Il modo più normale per andare da Gerusalemme a Betlemme è prendere il 231 o il 234 dalla stazione dei bus arabi alla Porta di Damasco.
“Questo arriva solo fino al check-point, prendete il prossimo”, ci avvisa un angelo custode, avvolta nella hijab e con i libri in mano. E’ una ragazza di Gerusalemme, ma studia all'università di Betlemme, “anch'io vado lì, oggi ho un esame. Anzi per la precisione lo avrei tra mezz'ora, chissà se ci arrivo. Inshallah”, dice però senza ombra di preoccupazione. Perché il tempo in Medio Oriente è comunque un concetto relativo e non ci si può agitare se un bus parte in ritardo.
All'andata gli undici chilometri dalla Città Santa a quella della Natività volano, nessun controllo. Al ritorno, dalla Cisgiordania a Israele, la musica cambia. Si sale e scende per tutta Betlemme, poi Beit Jala. Il bus è pieno di ragazze, velate ma truccate con cura. Cariche di libri, oggi è stato giorno di esami e lauree. Parlano tra loro, ridacchiano, chattano con lo smartphone. L’autobus arriva alla barriera e in un attimo tutte le ragazze (sono loro in maggioranza tra i passeggeri dell'autobus) scendono come danzando con i loro vestiti lunghi e curati. Facciamo per alzarci ma un altro angelo custode, questa volta un’anziana dai tratti occidentali, ma ben informata su come muoversi, dice: “You can stay here”, potete restare sul bus. E i giovanissimi poliziotti del checkpoint salgono solo per noi. Guardano svogliatamente il passaporto e scendono. Noi seduti comodamente, gli altri, che qui ci vivono, invece giù, in piedi, in attesa di un ok. Le ragazze si mettono in fila. Una per una davanti alle guardie alzano il loro lasciapassare, con la copertina color carta da zucchero. Nessuna parola con i giovani che controllano. Ventenni, poco più, dall'una e dall'altra parte. La giovane guardia fa solo un cenno con la testa per dire ‘Sali’, niente più. Loro, le belle ragazze con la hijab, non se ne curano, qualcuna sorride civettuola, e risalgono sul bus. Perché tanto domani, nel tragitto casa-università-casa, il muro sarà lì ad attenderle di nuovo.

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